Gentili amici portatori della pietra del Sele d’oro,
sono davvero onorato di ricevere questo premio, che al di là di tutto inorgoglisce e rende doratamente vanitosa una parte del cognome di famiglia. I Capossela infatti, penso abbiano in origine una relazione con il fiume Sele, e soprattutto con la sua sorgente: quel Capo Sele, che sparse nella zona limitrofa esperti pastai. Un altro legame ancora più ancestrale, lega il territorio di Oliveto alla valle dell’Ofanto, la sua stella polare, il “paese dei coppoloni”: la civiltà di Oliveto–Cairano, quelle tombe a fossa che ci rivelano una comune origine che viene di là dal mare. Dall’Illiria, da oriente, dai Balcani, insomma. Quei Balcani che per certe mitologie cinematografiche mi hanno fatto scoprire e ri- conoscere in una luce più mitica quelle che, nell’Odissea Omerica, sono chiamate “terre dei padri”. Terre dell’origine tenute in vita per me con la zolla del racconto e le suggestioni dei viaggi d’infanzia.
Per me questa terra rimane la terra del mito, la terra del racconto. Nel racconto c’è posto per il reale, ma ancora più per quello che gli anziani chiamavano “il mondo della verità”. Il mondo dove si va a finire dopo la vita o da cui si viene prima. La dimensione che sconfina nel magico, nel mito ancestrale, nel Sacro legato alla natura. Questi, uniti a un senso della frontiera emanato dal paesaggio stesso, sono i beni immateriali che cerco di coltivare. Se pure possono sembrare beni poco utili o poco redditizi, o che insomma “non danno da mangiare“, sono invece beni di grande valore.
Questa è una terra che viene molto spesso deturpata dall’attualità. L’attualità si presenta più frequentemente in forma di minaccia che di possibilità. L’attualità è spesso abbruttimento, smarrimento di valori, sottocultura. Questi luoghi sono spesso minacciati di diventare una discarica, non soltanto di rifiuti materici, di aggressioni ambientali, ma anche di discarica culturale. Molti eventi, che potenzialmente dovrebbero essere occasione di aggregazione, finiscono per diventare il ricettacolo di tutta una sottocultura televisiva che mal si concilia con la potente natura mitica di queste terre.
Sono terre che sono state svuotate dall’emigrazione, è vero. Terre in cui sovente si respira il vuoto. Ma io credo che non si debba avere paura del vuoto, che il vuoto offra una grande potenzialità, che possa darci pensieri potenti. A patto che non venga trasformato in abbandono e degrado. Bisogna invece avere cura del vuoto, mantenerlo fertile. In un mondo sempre più affollato, le zone interne -meno oppresse dalla densità demografica- possono essere il polmone che permette di respirare tanto al corpo quanto all’immaginazione.
Per questo credo sia molto importante avere cura del territorio, di questo vuoto, e difenderlo con più forza, proprio perché pochi sono i suoi abitanti. Perché il territorio è la principale risorsa che abbiamo in queste terre. La sola.
Vi ringrazio per l’attenzione che questo premio ha voluto rivolgere al festival. Premio da condividere con i molti che con tanta passione e disponibilità hanno reso possibile questi eventi, sempre sul filo del miracolo. Lo abbiamo chiamato Sponzfest in riferimento alla sponzatura, all’impregnamento, alla perdita del confine individuale che i riti collettivi comportano. Siamo partiti lo scorso anno celebrando la ritualità fondante di una comunità, lo sposalizio. Quest’anno abbiamo esteso il discorso al sogno del treno ed è stata una vera emozione veder vivere luoghi destinati all’abbandono, come le strutture della linea ferroviaria Avellino–Rocchetta. Ogni attività, ogni cosa accaduta in quei luoghi, ha amplificato la sua suggestione proprio grazie al vuoto che la circondava. Un vuoto che ha permesso di allargare la mente. Sono posti così pittoreschi, nel profondo senso del termine, che a volte basta soltanto accendere una lampadina e avere cura di non deturparli, perché ci restituiscano decuplicato il nostro investimento emotivo. La rendita è altissima, a patto di provarci.
“Conosci te stesso” è il sano, antico, principio da applicare anche a un territorio. Solo conoscendo e rispettando la sua vocazione se ne può aumentare la forza. A trent’anni dalla nascita della vostra associazione sorta sulle macerie del sisma dell’80, per vigilare sui rischi e le possibilità della ricostruzione, è doveroso continuare a interrogarci su questo principio. Quando si incontrano per le strade i “poli industriali “ abbandonati, le opere inutili già in fase di degrado, quando non si trova più alla vista nemmeno una masseria di pietra, ma tutte queste costruzioni inabitate, costruite con principi così difformi dalla storia di queste terre, viene da raddoppiare la vigilanza, perché non basta “il fare”, occorre fare sensatamente. E sta a noi dare un senso, una direzione. Per non finire come il planctus del mare, che viene mangiato da tutti, perché non dispone di suoi organi di direzione.
Grazie dell’attenzione e perdonate per il tempo rubato.
Vinicio Capossela