Michele Tito nasce a Homs (Siria) il 22 maggio 1925.
Il nostro problema è essere utili e la nostra ambizione è quella di meritarci il rispetto di chi crede nelle cose
All’età di cinque anni parte per l’Italia con la famiglia, stabilendosi prima a Cassino e Salerno poi e definitivamente a Castellammare di Stabia nel 1933, dove compie gli studi, frequentando prima il liceo classico “Plinio Seniore” e poi l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, laureandosi in Scienze Politiche.
All’ inizio degli anni ’50, fresco di laurea, inizia a Napoli l’attività giornalistica, collaborando a Il Mattino d’Italia prima, a Il Mondo di Mario Pannunzio ed a L’Europeo di Arrigo Benedetti poi.
Sono gli anni del dopoguerra. Napoli, al pari del paese, uscita dal conflitto malconcia, si dibatte tra mille difficoltà per risanare le ferite della guerra.
Le elezioni del 1953 confermano nel mezzogiorno d’ Italia il risultato elettorale del voto referendario, assegnando la vittoria alla destra monarchica e fascista.
Napoli è nella morsa del laburismo.
Proprio a Castellammare di Stabia, la “Stalingrado del sud”, riconosciuta quale “laboratorio politico” del Paese, la D.C. dà vita nel 1954 al primo esperimento accordo con la destra fascista, portando alla guida della Città una giunta di centro-destra. Di lì a poco l’operazione, trasferita a livello nazionale, porta le destre al governo del Paese.
Sulle pagine de Il Mondo, Michele Tito cura la rubrica Aria di Napoli, dove con grande lucidità ed acutezza riporta la realtà della società napoletana di quei giorni.
Apprezzato subito negli ambienti giornalistici, nel luglio 1953 riceve da Il Messaggero l’incarico di corrispondente a Parigi.
Nella Capitale francese soggiorna sette anni, facendo valere la sua competenza di esperto di politica internazionale.
Di grande interesse in questi anni i servizi inviati da Algeri e Parigi sulla rivolta del paese nord-africano nel 1957. Discriminazione della popolazione di colore che esige parità di trattamento, emancipazione della donna, fanatismo religioso della popolazione indigena, protezioni alleanze e complicità nel clima di terrore instauratosi, l’errata visione della rivolta da parte della Francia ed il ruolo del “Fronte di Liberazione” vengono tratteggiati con puntualità dalla penna di Tito sulle pagine de IL Messaggero del 24 febbraio 1957 “Solo con un’abile opera psicologica si può risolvere la questione algerina”:
Come si vede una questione di abilità psicologica. Ma è un problema grave perché l’Algeria è il solo caso, nel contrasto che oppone il mondo di colore ai bianchi, di paese ove la comunità bianca non sia una ristretta minoranza che viva una vita tutta particolare nella città ma, attraverso generazioni, si è diramata, numerosa, attiva intraprendente e coraggiosa, in tutto il paese, ovunque in contatto con i mussulmani, ma ovunque incapace di comunicare con loro. I contrasti sono così troppo evidenti, i motivi di risentimento maturati da generazioni(e del resto è noto che il nazionalismo algerino si è manifestato già da decenni). E’ capace la Francia di vincere questa battaglia? Essa ha vinto, pare la guerriglia perché i ribelli hanno rinunciato ad imporre alla Francia Din Bien Phu che ingenuamente, credevano di poter ripetere in Algeria e l’idea li affascinava. Il Fronte di liberazione nazionale è in crisi, la popolazione non la segue più nonostante gli errori dei francesi. La Francia non ha adesso che questa battaglia da condurre. Ma deve fare appello ai moderati, ai romantici delle proteste vaghe e sentimentali, che l’amministrazione ha imprigionato prima degli estremisti o respinti verso l’opposizione armata. La Francia deve vincere il proprio orgoglio, riconoscere i propri errori riabilitare gli amici che ha schiacciato per il bisogno di avere soltanto dei nemici o degli ausiliari. E prima ancora di intraprendere le riforme economiche e sociali cui i socialisti credono come in toccasana per ogni male, cercare un movimento di idee che faccia maturare la coscienza tipica degli algerini e non adoperarsi a soffocarla. Perché, in ogni caso, i sei milioni di analfabeti algerini finiranno prima o poi col ragionare e col capire qual è il loro interesse:quel giorno, se la Francia non avrà conquistato con la moderazione gli animi dei musulmani, l’Algeria si troverà comunista, con l’aiuto delle riforme e delle concessioni che sono doverose ma che i socialisti francesi credono valide anche se non accompagnate da una presenza e una influenza psicologica.
La battaglia potrebbe essere vinta forse, almeno in parte , se i francesi costruissero municipi più modesti ove i musulmani fossero incoraggiati ad entrare e se le tre parole della grande rivoluzione, invece di rimanere incise, solenni ma astratte, nel marmo, si traducessero in un’ azione quotidiana, minuta, paziente, fatta anche, inizialmente, di rinunce e di sacrifici. Si possono, insomma, immobilizzare le bande armate. Ma per conquistare definitivamente l’ Algeria ci vogliono molti anni di coraggio e di lucidità.
Chiamato da Giulio De Benedetti a la Stampa, subentra a Vittorio Gorresio nella direzione dell’ufficio romano.
Sono gli anni dei suoi viaggi nell’est europeo, in Giappone ed in Cina, dove è il primo giornalista italiano ad essere ricevuto da Ciu-en-Lai agli inizi degli anni ’70.
Sono anni intensissimi fino al 1973, quando con l’arrivo di Arrigo Levi alla direzione interrompe definitivamente i suoi rapporti col quotidiano torinese.
La protesta contadina in Francia del 1961 con la fuga delle campagne a seguito della crisi dell’agricoltura, il gollismo e il nuovo corso francese, il processo al generale Salan e la complicità e corruzione dell’apparato statale francese, l’impegno europeo e il ruolo della N.A.T.O. agli inizi degli anni ’60, l’immigrazione italiana in Svizzera e la condizione dei minatori in Belgio, i primi contatti tra l’Italia e la Cina con l’accordo del novembre ’70, la prima missione di una delegazione italiana nel maggio ’71 ricevuta da Ciu-en-Lai, i servizi da Bucarest sulla Romania di Ceausescu e da Belgrado sulla Jugoslavia del maresciallo Tito e le corrispondenze da Tokio sul riavvicinamento nippo-cinese.
Un’attività intensissima che nono conosce sosta. L’attività giornalistica di Michele Tito durante il periodo de La Stampa, tocca l’impegno meridionalista attraverso due inchieste entrambe del ’71: la prima sulla mafia con ampi servizi da Palermo, la seconda Inchiesta su Napoli nella quale tratta delle speculazioni edilizie, del bradisismo a Pozzuoli, degli scoperti bancari, dei fallimenti a catena, dell’Alfa-sud, di amministratori e clientele, di economia dei bassi, della ricerca del posto di lavoro e di tribunale e grandi avvocati nel capoluogo partenopeo.
Negli anni de La Stampa, Michele Tito attraversa il mondo in lungo e in largo, toccando le maggiori capitali europee ed extra-europee: Algeri, Atene, Bagdad, Belgrado, Berna, Bucarest, L’Aja, Londra, Pechino, Shangai, Teheran, Tokio, Tunisi, ad altre ancora.
1974: Lasciata La Stampa e dopo una brevissima esperienza di editorialista a Il Giorno, si trasferisce a Milano chiamato da Piero Ottone a Il Corriere della Sera, dove ricopre la carica di vice-direttore vicario della testata di Via Solforino fino alla fine del1977.
Sono anni difficili per il Paese. I difficili anni del terrorismo.
Sul finire del 1977, il rischio che la testata possa essere sottomessa a qualsiasi forza, anche occultata, non è infondata. La P2, già presente ed operante sul territorio, tenta di allungare i tentacoli sul prestigioso quotidiano.
Nel novembre di quest’anno, intuendo il pericolo per “Il Corriere”. Tito intervistato da Rita Musa di Radio Regione ipotizza ancora la tesi del pericolo che una parte della proprietà, proprio come nel 1977, possa essere coinvolta nella faccenda della P2.
Nel 1978 Michele Tito assume la direzione de Il Secolo XIX di Genova, carica che manterrà fino al 1981, quando lascerà per fondare Il Globo.
Sono i drammatici “anni del terrorismo” e delle “Brigate Rosse” che proprio a Genova si scoprirà avevano centri strategici. Si trova a dirigere il giornale nel momento tragico che ha il suo apice nel rapimento e successivo assassinio di Aldo Moro.
Sostenitore della trattativa è una voce fuori dal coro nel panorama della grande stampa italiana contraria ad ogni cedimento dello stato.
I suoi fondi fanno discutere, le sue opinioni portano Il Secolo XIX in prima linea nel dibattito nazionale. Posizione che discute in redazione e non solo nelle riunioni di vertice, perché ama il confronto e vuole sapere se i suoi redattori condividono la scelta di pubblicare i proclami delle B.R.
E’ la stessa posizione che mantiene in occasione del rapimento del giudice d’Urso, quando i terroristi, in cambio della vita di un magistrato chiedono la pubblicazione dei loro comunicati sui giornali.
Tito aderisce prontamente senza tentennamenti, provocando scandalo tra i suoi colleghi direttori arroccati sulle questioni di principio: ha il pensiero fisso alla tragica fine di Moro che, a suo parere, poteva essere salvato.
Magari sbaglierò ma a uno sbaglio si può rimediare, alla morte di un uomo no”.
D’Urso ha salva la vita e la salvezza la deve alla “laicità” di Michele Tito, a questo suo rifiuto nei confronti delle questioni di principio.
La capacità di analizzare i fatti della politica lo porta, al pari degli economisti, a scontare il futuro.
In un articolo dal titolo profetico Il governo dei giudici anticipa di molti anni la grande crisi di tangentopoli.
Una breve esperienza alla direzione de Il Globo e alla Rai con il ciclo “Verso l’Europa”: dodici trasmissioni monotematiche sui paesi della nascente Comunità europea, poi il ritorno come editorialista a Il Corriere della Sera.
Sono gli anni che preannunciano la svolta in Unione Sovietica.
Dopo diciotto anni di potere muore Leonid Breznev.
Gli succede Yuri Andropov prima e Konstantin Cernienko poi, prima dell’avvento dell’innovatore Gorbaciov.
Significativo in questi anni un lungo editoriale su Il Corriere della Sera, in occasione della morte di Andropov dal titolo “Comincia la quarta Russia”, dove Tito dopo una dettagliata e puntuale panoramica dell’Unione Sovietica dell’era staliniana, non nasconde la sua preoccupazione di un ritorno alla guerra fredda.
Da via Solforino, in questi anni, lo sguardo attento di Tito non lascia abbandonato a se il mondo giovanile, al quale molto legato, proponendo ampi servizi sul mondo della scuola e della droga, a testimonianza del suo grande interesse per quella parte della società nelle cui mani è affidato il futuro.
Nel 1987 ritorna a Milano con l’incarico di direttore de Il Mondo.
Alla fine del 1989 rientra a Roma per dedicarsi alla Sviluppo quotidiani, agenzia giornalistica, svolgendo il ruolo di editorialista per le testate Il Secolo XIX, Il Mattino, Il Gazzettino di Venezia, La Sicilia, La Gazzetta del Mezzogiorno e L’Unione Strada.
Insegna alla Scuola di Giornalismo dell’Università di Tor Vergata, incarico che assolve con passione trasmettendo ai suoi allievi, anche nel corso di lunghe chiacchierate, l’entusiasmo per il suo mestiere.
Editorialista della rivista Artepresente, ad essa affida la riflessione “L’11 Settembre e dopo”.
La lunga esperienza umana e professionale di Michele Tito termina a Roma, dopo una breve malattia, il 21 gennaio del 2003.
“18 anni: e ogni anno una conquista, un’avanzata, una scoperta”
Così, nel corso della serata finale dell’edizione 2002, Michele Tito aveva voluto fare sintesi della sua esperienza di presidente di Giuria del Premio Sele d’Oro mezzogiorno. Già dagli anni ’80, Tito aveva infatti offerto al Premio il suo generoso contributo culturale, divenendone animatore lucido, sensibile,disponibile.
Grazie a Michele Tito, la manifestazione ha saputo avviare percorsi di riflessione e di analisi, spesso in anticipo sui tempi. Una maturazione senz’altro favorita dal gran numero di intellettuali richiamati negli anni a OLIVETO CITRA proprio dalla figura e dal lavoro di Michele Tito.
Nato come iniziativa coraggiosa di un gruppo di giovani, il Sele d’Oro è così divenuto negli anni un forte punto di riferimento per una nuova classe dirigente locale, finalmente attenta alle tematiche dello sviluppo e della crescita del territorio.
Importanti realizzazioni come il Patto territoriale Sele-Tanagro nascono infatti anche sulla scia di una consonanza culturale fra amministratori, sindacalisti e imprenditori locali, che aveva ed ha nel Sele d’Oro un momento fisso di elaborazione e verifica. Ed è sempre il Sele d’Oro, negli anni ’90 a creare e favorire lo sviluppo di quella “coscienza” di territorio unico.
“Michele Tito – ha scritto l’allora sindaco di Oliveto Citra Carmine Pignata – ci ha insegnato a credere nelle potenzialità del nostro territorio, a lavorare con serietà per lo sviluppo, a mettere coraggio e passione nelle scelte, a preferire il dialogo allo scontro frontale.”
L’intero Sele – Tanagro gli deve perciò molto.
Di seguito, l’articolo di Michele Tito L’11 settembre e dopo, tratto da Artepresente. L’uomo, il tempo, la storia – gennaio-giugno 200
“A metà febbraio il titolo di Le Monde “L’America sta impazzendo?”, ha fatto il giro del mondo. Era una domanda e segnava nella comunità internazionale la fine dell’era cominciata l’11 settembre, il giorno dell’attentato di New York alle due torri, all’insegna di un altro titolo dello stesso quotidiano: Siamo tutti americani.
Siamo tutti americani avevano proclamato dai giornali inglesi e francesi, tedeschi e italiani, giapponesi e perfino arabi. Ora, anche se il terrorismo rimane e minaccia tutto l’Occidente, non ci sentiamo più in Europa, in Asia e nel mondo arabo, tutti americani. Non lo siamo almeno allo stesso modo, come invece sono gli americani che fanno di Bush il presidente più popolare nella storia del dopoguerra. Che cosa accade?
Accade che l’America, di cui l’Europa come il resto del mondo ha bisogno, fa paura, e fa paura la sua leadership che riconosciamo ed accettiamo. Fa paura perché si tratta di una leadership divenuta al tempo stesso insicura ed arrogante. L’insicurezza la rende capace di ambizioni temerarie e l’arroganza la induce a ignorare le ragioni stesse per le quali c’è una parte del mondo, la nostra, che accetta la sua guida. Cresce di giorno in giorno, con la presidenza di Bush, l’orgoglio di un comando solitario e diventa pretesa la propensione a riconoscere giusto solo un mondo fatto com’essa lo vuole.
Il discorso dell’Unione del 29 gennaio, con l’anatema contro l’asse del male che dovrebbe giustificare ogni attacco a ogni paese da parte di un’America che non consulta neppure gli alleati, ha come rotto l’incantesimo: nasce il sospetto che la guerra al terrorismo, sacrosanta e condotta dall’America con mezzi di potenza strepitosa, stia per diventare anche il pretesto per l’affermazione di una ferrea volontà imperiale. Mai, negli ultimi decenni, era stata così clamorosa l’ostentazione della volontà di attuare una politica tutta affidata alla preminenza militare. Mai, negli ultimi decenni, era stata messa tanta cura nel mostrare la capacità di raggiungere una forza militare che solo, forse, ai tempi della guerra fredda si poteva giustificare: Siamo capaci di vincere anche se abbiamo tutto il mondo contro. E il bilancio del Pentagono copre il 40 per cento delle spese militari del pianeta. Per quanto forte, insidioso e diffuso il terrorismo, nelle sue diverse manifestazioni, ha davvero bisogno di tutto questo e di tutto il resto di cui non si parla che è il fatto di ordigni che nessuno fuori dall’America possiede?
L’impressione della preparazione ad una guerra che s’immagina suscettibile di estendersi intorno al Paese attaccato e della necessità di dover fronteggiare anche alleanze di grandi forze militari comincia ad allarmare soprattutto l’Europa.
Ne deriva un clima di attesa di qualcosa di grave, ma soprattutto di irreparabile perché l’America è pronta ad agire da sola, alla solitudine anzi sembra vocarsi. Questo è il mondo che diventa oscuro di cui parla, facendo il bilancio del dopo l’11 settembre, Le Debat, forse la rivista più prestigiosa di storia politica contemporanea. Ed è questo mondo oscuro che si intravede dietro il gran discutere dell’attacco all’Irak ora dato per sicuro ora smentito, regolarmente lasciando gli alleati nell’incertezza, sovranamente ignorando gli avvenimenti dei governi arabi assediati dalle tendenze estremistiche, ostinatamente riluttante a cercare le vie praticabili per una qualche prospettiva di pace in Palestina.
Se la politica estera dell’America si riduce tutta la guerra al terrorismo indiscriminatamente portata in qualsiasi parte del mondo inappellabilmente riconosciuta in ogni movimento di protesta magari per l’indipendenza, magari per ragioni sociali il mondo, oltre che oscuro, diventa straordinariamente pericoloso. Unanimi lo denunciano pericoloso anche il Wirld Economic Forum che si è riunito a New York , i Ministri degli Esteri riunitisi a Caceres e il Joint Forum nella sua riunione di Istanbul. Di questo ha discusso l’ultimo G8 e ininterrotte sono le pressioni che almeno sei ministri dell’Unione Europea, Gran Bretagna compresa, stanno facendo perché sia abbandonata la politica dell’alternarsi delle minacce e dei riconoscimenti dell’Iran. L’Iran candidato, si teme, a un attacco proprio mentre tenta, tra mille difficoltà, l’avvicinamento all’Occidente.
Il compito più arduo degli alleati dell’America è divenuto quello di convincere la superpotenza a non creare per sé e per gli altri sempre nuovi nemici, in Asia come nel mondo arabo ormai con le sue masse, in procinto di sfuggire al controllo dei governi delle élites e magari delle tirannie che l’Occidente ha protervo. Ma, questa è la rivelazione che allarma, la mobilitazione del riarmo, la mano libera per la scelta dei nemici, la determinazione di agire anche sola, se occorre, sono tutte cose che l’attacco terroristico dell’ 11 settembre giustifica ma che in realtà erano state decise prima. Decise quando non s’immaginava che il terrorismo potesse investire direttamente l’America. Il mondo è troppo oscuro.
Non ci sono soltanto la realtà politico-diplomatica e la guerra al terrorismo e la questione della sterminata preminenza militare. C’è l’insidia del distacco crescente tra gli Stati Uniti e il resto dell’Occidente nel campo di quelle cose che si chiamano valori: il patriottismo fiammeggiante, alla texana, che l’offensiva di Bin Laden ha fatto risorgere, si aggiunge all’accettazione della violazione dei diritti umani in occasioni sempre più frequenti. Il clima di guerra, l’attesa di chissà quali conflitti e il trauma della violata invulnerabilità americana rendono possibile e legittimano in cinismo con il quale l’America afferma apertamente il prevalere dei propri singoli interessi contro la comunità internazionale anche quando si tratta, come per l’ambiente o per i bambini schiavi o per i medicinali scaduti che si vendono Africa o per la lotta ai traffici loschi o per la stessa politica economica, dell’organizzazione di una vita più umana per tutti.
Nel mondo della globalizzazione che il no global sta investendo, sempre più il pensiero unico che l’America di Bush cerca di imporre, appare, occorre dirlo, moralmente insostenibile per le genti dell’Europa.
Si dice che Bush, politico del Texas, è un uomo della cintura biblica, cioè della regione e del modo di pensare dei predicatori, di un nuovo isolazionismo, l’isolazionismo morale. Di una morale che denuncia nella idolatria dei diritti dell’uomo e della solidarietà internazionale un fattore dell’indebolimento dell’America. Di queste idee Bush diventa alfiere.
Questa, ovviamente, è solo una parte dell’America, quella che in questo momento sta prevalendo. Non è l’America di sempre e della sua vocazione profonda. Ma è giusto temere che sia quanto basti per inasprire tutte le ragioni di contrasto tra l’America e l’Europa, le ragioni che cominciano dal rifiuto di individuare le radici che non sono soltanto religiose del terrorismo.
L’America sembra stia impazzendo, ma ritroverà sicuro se stessa.
E l’Europa ritroverà tanto più facilmente l’America, quando potrà essere e mostrarsi capace di integrazione. Le fughe isolate dell’ Europa per godere di particolari simpatie americane sono sterili illusorie; si ridurranno, per l’Italia, all’ennesimo giro di valzer di una stagione.”